SEO Redirect
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Come gestire correttamente i redirect

Cosa troverai in questo articolo. La necessità di reindirizzare pagine si presenta molto di frequente all’interno di un dominio web: non solo in occasione delle grandi migrazioni, ma anche per mantenere aggiornato un sito eliminando contenuti obsoleti o duplicati o per smistare il traffico verso le adeguate versioni linguistiche/regionali. A seconda delle proprie necessità, si può ricorrere a specifici tipi di redirect permanenti o temporanei, facendo attenzione a non creare catene di reindirizzamenti o loop e mantenendo attivi i redirect per un periodo sufficiente ai bot del motore di ricerca per trasferire tutti i segnali dai vecchi ai nuovi URL.

SEO Redirect

Nel mondo SEO, la parola “migrazione” è foriera di panico e sgomento al pari di “Core Update”. In realtà, i redirect che sono alla base delle migrazioni fanno parte della normale quotidianità del lavoro di SEO e sviluppatori: in questo articolo vi spieghiamo le differenze fra i vari tipi di reindirizzamento esistenti e qual è il modo migliore di gestirli in ottica SEO.

Cos’è e quando è necessario fare un redirect?

La necessità di reindirizzare una pagina è una circostanza che si verifica alquanto di frequente nell’arco della vita di un sito web. Un redirect è, per l’appunto, un modo per mandare le persone e gli spider del motore di ricerca verso un nuovo URL qualora una determinata pagina sia stata eliminata o modificata.

Per motivi di UX e SEO, l’idea di lasciare attive pagine non più utili agli utenti non è particolarmente brillante, perché si disperde inutilmente il crawl budget assegnato dal motore di ricerca al sito, si rischiano cannibalizzazioni di contenuti e si moltiplicano le possibilità che la navigazione di un utente finisca in un vicolo cieco, inficiando la qualità della sua esperienza on page.

È importante comunque effettuare controlli periodici del sito per evitare che la situazione sfugga di mano in senso opposto, con catene di redirect eccessivamente lunghe. Normalmente, Googlebot è in grado di seguire fino a 10 redirect consecutivi senza accusare il colpo, ovvero senza segnalare errori all’interno del Rapporto Indicizzazione di Google Search Console.

Più problematico il caso dei loop di redirect, dove, cioè, un URL reindirizza a sé stesso (con o senza passaggi intermedi) causando per l’utente un’interruzione della navigazione e facendo finire i bot in un vero e proprio cul de sac con tutto ciò che ne consegue in termini di spreco di crawl budget e potenziali crash di server.

Quanti tipi di redirect esistono?

I redirect possono essere permanenti o temporanei a seconda di quanto tempo desideriamo mantenerli in funzione. Questo ha un impatto su quali pagine vengono selezionate dall’algoritmo del motore di ricerca per essere mostrate in SERP. Inoltre, è possibile inserire redirect direttamente su un server (server-side) oppure farli avvenire all’interno del browser dell’utente (client-side): nel secondo caso è possibile sfruttare un server esterno, come una CDN o il proprio provider di dominio, e andare a inserire l’indicazione di redirect all’interno dell’HTML o dell’header HTML.

Per quanto riguarda i redirect permanenti, abbiamo a disposizione le seguenti tipologie di redirect:

  • Per i redirect server-side: HTTP 301 e HTTP 308: il secondo è preferibile al primo qualora sul vostro sito siano presenti moduli e sia importante mantenere lo stesso metodo HTTP della richiesta originale, GET o POST;
  • Per I redirect client-side: meta refresh, HTTP refresh, JavaScript; i primi due innescano un redirect a livello del browser dopo un dato numero di secondi, mentre il terzo è un metodo abbastanza deprecato in quanto segue temporalmente il rendering di una pagina, processo durante il quale possono sempre verificarsi problemi.

Relativamente invece ai redirect temporanei, possiamo attingere alle seguenti opzioni:

  • Per i redirect server-side: HTTP 302, HTTP 303 e HTTP 307; fra il 302 e il 307 intercorre la stessa differenza già chiarita per i redirect 301 e 308; il 303 non viene invece generalmente utilizzato per ragioni SEO, ma per motivi diversi, ad esempio prevenire l’invio di risposte multiple a un modulo quando l’utente schiaccia il pulsante “Indietro” del browser;
  • Per I redirect client-side: meta refresh, HTTP refresh.

Redirect permanenti: quando usarli

Un redirect permanente indica al motore di ricerca che una risorsa all’interno di un sito è stata definitivamente spostata. Viene quindi usato ogni qualvolta l’URL di una pagina o di un media venga modificato permanentemente, compreso il caso di una migrazione totale del sito verso un nuovo dominio e quello del passaggio da HTTP a HTTPS in seguito all’installazione di un certificato di sicurezza.

Si ricorre poi al redirect permanente nel caso in cui si vogliano sistemare situazioni di duplicazioni dovute alla presenza di pagine accessibili con o senza www nell’URL del sito, ma anche semplicemente per unire due pagine nell’ottica di prevenire cannibalizzazioni di keyword fra contenuti concorrenti per le stesse parole chiave (ne parleremo più approfonditamente in un prossimo articolo sul content refreshing & content pruning).

Dal punto di vista SEO, ricorrere a un redirect permanente significa fornire a Google un segnale forte di quale pagina il bot debba canonicalizzare. Come sempre, bisogna essere consapevoli del fatto che l’algoritmo potrebbe pensarla differentemente e continuare a trattare la pagina reindirizzata come quella da consolidare in SERP. Questo accade in genere perché il redirect viene considerato irrilevante e dunque trattato come un soft 404 (le due pagine sono completamente diverse oppure la pagina di partenza risulta più significativa per l’utente rispetto a quella di destinazione).

Per verificare che Google stia effettivamente trattando la nuova pagina come quella canonica, potete utilizzare il pannello “Link > Link esterni > Pagine con più link”; da qui, selezionate il vostro URL di destinazione e filtrate i risultati per “Sito”, dopodiché incollate i domini che linkano alla vecchia pagina: se GSC non vi restituisce risultati, è molto probabile che Google non stia trasferendo i backlink della vecchia pagina a quella nuova e stia trattando il redirect come un soft 404. Al contrario, se vi vengono restituiti risultati, cliccando sui singoli siti dovreste vedere il vecchio URL nella colonna “URL di destinazione”, il che significa che Google sta consolidando i backlink verso il nuovo URL.

Redirect temporanei: quando usarli

La necessità dei redirect temporanei si propone in casi più particolari: ad esempio, quando desideriamo indirizzare un utente alla versione corretta del sito in base alla sua geolocalizzazione e/o lingua, oppure quando si conducono A/B Test sulla funzionalità di diversi design, o ancora quando vogliamo inviare gli utenti a una pagina promozionale in particolare anziché alla vetrina generale di uno shop online.

Al contrario dei redirect permanenti, quelli temporanei attirano debolmente l’attenzione degli spider del motore di ricerca, che nella maggior parte dei casi continua a consolidare la pagina originale che è stata reindirizzata (ad esempio la homepage dell’e-commerce e non la pagina con la promo del momento dove atterreranno momentaneamente gli utenti).

Tuttavia, trascorso un certo periodo di tempo Google comincerà a trattare il redirect temporaneo come uno permanente nonostante la diversa indicazione HTTP; il tempo potrebbe variare da qualche giorno a mesi, oppure lo slittamento potrebbe non avvenire mai, ma in termini SEO è importante essere consapevoli del rischio e tenere traccia dei redirect creati gestendoli nella maniera più appropriata rispetto alle proprie esigenze di posizionamento.

Inserendo un URL nello Strumento di controllo URL di Google Search Console è possibile verificare se l’URL sia presente su Google: se non lo fosse, potete dedurne che Google consideri il redirect come permanente; fate sempre attenzione alla data dell’ultimo crawl e chiedete manualmente una nuova indicizzazione per dati aggiornati al post-redirect.

Errori comuni nell’uso dei redirect

Oltre al già citato caso delle catene e dei loop di redirect, ci sono altri errori comuni nell’implementazione e nell’uso dei redirect che è importante conoscere e monitorare. Uno di questi è l’utilizzo di regole di redirect troppo generiche che finiscono per reindirizzare indiscriminatamente intere sezioni del sito verso una sola pagina. Questo può generare percorsi di navigazione inattesi per l’utente e, in alcuni casi, avere effetti negativi anche sul posizionamento, soprattutto se si finiscono involontariamente per assorbire link provenienti da pagine spam o compromesse in passato.

Un buon test empirico per capire se sia stato commesso questo tipo di errore sul proprio sito è digitare un URL a caso o una cartella inesistente del tipo nomedominio.it/provaxyz: se restituisce un errore 404, è tutto sotto controllo; se invece reindirizza altrove, è possibile che ci siano regole troppo ampie da rivedere.

Un altro errore da evitare è dimenticare di reindirizzare file importanti come PDF o immagini in fase di migrazione: se questi contenuti generavano traffico organico, è bene preservarli tramite redirect specifici. Non è invece necessario occuparsi di file come CSS, JS o font, che non vengono indicizzati dai motori di ricerca.

Attenzione anche alla gestione dei certificati HTTPS: se il vecchio dominio utilizzava un certificato SSL e questo scade, i bot potrebbero ancora seguire il redirect, ma gli utenti visualizzeranno un errore di sicurezza, interrompendo l’esperienza di navigazione. Per evitare questo problema, è possibile adottare certificati multi-dominio o sfruttare servizi DNS che supportano i redirect HTTPS.

È poi importante ricordare che, secondo le linee guida di Google, i redirect dovrebbero rimanere attivi per almeno un anno affinché tutti i segnali vengano trasferiti correttamente. In realtà, può essere utile mantenerli anche più a lungo, soprattutto se gli utenti continuano a visitare i vecchi URL: in questi casi, è buona prassi monitorare i log del server o i dati di Search Console prima di rimuovere definitivamente un redirect.

Infine, attenzione alle migrazioni di interi siti: quando si sposta un’intera piattaforma su un nuovo dominio o sottodominio, è fondamentale pianificare e testare ogni singolo redirect per evitare perdite di traffico o segnali SEO. In particolare, conviene:

  • Mappare in anticipo tutti i vecchi URL e verificare che puntino correttamente ai nuovi;
  • Eseguire il deploy in blocchi controllati, monitorando Search Console per intercettare subito eventuali errori;
  • Predisporre redirect per contenuti “minori” (immagini, PDF, landing temporanee) oltre alle pagine principali.

Per una guida dettagliata su come gestire la migrazione di un intero sito, consulta il nostro articolo dedicato: Migrazioni e SEO: come non perdere visibilità.

Riassumendo: le domande più comuni sulla gestione dei redirect in ottica SEO

Concludiamo questo approfondimento con una serie di FAQ sulla corretta gestione SEO dei reindirizzamenti. Se non trovate risposta alla vostra domanda, scriveteci: saremo felici di chiarire tutti i vostri dubbi e arricchire ulteriormente questo contenuto grazie alle vostre segnalazioni.

Che cos’è il crawl budget e come viene ottimizzato dall’uso di redirect?

Il crawl budget è il tempo e le risorse che ogni bot del motore di ricerca dedica a scansionare le pagine di un sito. Ogni richiesta di crawling consuma una quota di questo budget: più pagine inutili o errori incontra, meno ne rimangono per gli URL davvero importanti. L’uso corretto dei redirect aiuta a ottimizzare il crawl budget, perché indirizza subito bot e utenti verso pagine valide anziché lasciarli “perdere” su URL cancellati o obsolete.

Si parla di catena di redirect quando un URL A reindirizza a B, che a sua volta reindirizza a C (e così via). Ogni passaggio in più rallenta la navigazione e consuma click-server e risorse di crawling. Google riesce a seguire fino a 10 redirect consecutivi prima di interrompere la catena, ma idealmente bisognerebbe mantenere i redirect 1:1 per evitare ritardi e dispersioni di segnali SEO.

Un loop di redirect si verifica quando, seguendo i reindirizzamenti, si ritorna all’URL di partenza o si crea un ciclo (ad es. A → B → A). In questo caso Googlebot e soprattutto l’utente restano “intrappolati” nel ciclo, senza mai raggiungere contenuti validi. Oltre a sprecare crawl budget, il loop genera errori di navigazione e può persino sovraccaricare il server.

Ogni redirect aggiunge un piccolo ritardo perché il browser deve fare una chiamata in più prima di raggiungere la pagina finale. Un solo 301 o 302 non si sente troppo, ma se si accumulano più passaggi (o, peggio, un loop) l’esperienza utente ne risente e peggiorano anche le metriche come First Contentful Paint.

I redirect permanenti (301, 308) segnalano ai motori di ricerca che la risorsa è stata spostata in modo definitivo; questi codici trasferiscono quasi tutti i segnali di ranking (backlink, PageRank) al nuovo URL. I redirect temporanei (302, 303, 307) indicano uno spostamento di breve durata, per cui i motori di ricerca tendono a mantenere in SERP l’URL originale, senza trasferire il completo valore SEO a quello di destinazione.

Il canonical è la soluzione ideale quando si hanno contenuti duplicati raggiungibili da URL diversi e si vuole indicare a Google qual è la versione “ufficiale” senza cambiare quello che vede l’utente. Se invece la vecchia pagina non esisterà più o è spostata per sempre, è decisamente preferibile applicare un redirect.

Per controllare che i redirect funzionino davvero occorre analizzare i log del server o usare strumenti di crawling come Screaming Frog in grado di mostrare se ogni vecchio URL finisce dove deve. Di tanto in tanto è possibile verificare su Search Console (Controllo URL) se Google stia seguendo correttamente i reindirizzamenti.

Un redirect 302 non ha un “timeout” tecnico: può rimanere attivo finché si desidera e continuerà a indirizzare utenti e bot verso l’URL di destinazione fintanto che rimane configurato. Tuttavia, Google tende a interpretare come permanenti quei 302 che restano attivi troppo a lungo. In base alle esperienze riportate dalla comunità SEO, dopo circa un mese di persistenza un redirect 302 può cominciare a comportarsi come se fosse un 301, con conseguente sostituzione del vecchio URL nell’indice.

Eliminandolo, chi clicca su vecchi link rischia di finire su un 404, mentre la pagina perderà tutti i segnali SEO consolidati (backlink, indicizzazione). Prima di toglierlo è consigliabile verificare su Search Console e nei log che il traffico verso il vecchio URL sia davvero sparito.

GET viene usato per richiedere dati; è “sicuro” (non modifica lo stato del server) e idempotente (ripetibile senza effetti collaterali). I browser possono memorizzare nella cache le risposte a GET. POST serve a inviare dati al server (es. form, login); può modificare risorse o creare nuove entità. Non è idempotente: una richiesta POST ripetuta può produrre risultati diversi o duplicati.

Un soft 404 è una pagina che, pur restituendo un codice HTTP 200 (OK) o un redirect, comunica all’utente (e talvolta ai bot) che il contenuto non esiste più, ad esempio attraverso una pagina “Non trovato” personalizzata. Google lo interpreta come un errore fittizio: vede la pagina come un 404 reale e non trasferisce segnali SEO al nuovo URL, vanificando l’intento del redirect.

Nel menù di sinistra di Google Search Console, seleziona “Controllo URL”. Qui puoi inserire qualsiasi URL del tuo dominio per vedere lo stato di indicizzazione, l’ultima data di crawl, eventuali errori e la possibilità di richiedere una nuova indicizzazione dopo aver applicato modifiche o redirect.

Coming soon:

Fra due settimane, sul blog di Seed parleremo di Content pruning & Content refreshing. Tornate a leggerci!

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